Tenuta Rossi Sa Zeppara: la testimonianza di Annalisa Ferruzzi

Testimonianza di Annalisa Ferruzzi, che ha abitato con la sua famiglia nella tenuta Rossi a Sa Zeppara

Sa Zeppara, anni 1960/63

La strada che portava a Sa Zeppara era uno sterrato che si imboccava dalla statale che andava da Guspini ad Arcidano.

Le terre dell’azienda attraversavano la statale e si estendevano verso un luogo che noi chiamavamo Tanca. Ettari di campi coltivati a grano e avena.

Mio padre, Giuseppe Ferruzzi, dirigeva l’azienda agricola che era di proprietà dei baroni Rossi di Cagliari.

Si entrava nella corte interna attraversando un alto portale in pietra. Tutto intorno alla corte ( uno sterrato con un solo grande albero fronzuto al centro) c’erano gli edifici.

All’ingresso, sulla sinistra, c’era la stalla, non molto grande, non c’era un vero e proprio allevamento di bovini.

Di fronte alla stalla, c’erano gli uffici, di mio padre, del geometra Me. A fianco, o comunicante, non ricordo, c’era una stanzetta adibita ad aula scolastica per la pluriclasse ( dalla prima elementare alla quinta). Eravamo pochi bambini e di età diverse, per cui ci avevano accorpato e assegnato un’unica maestra: la signorina Fa, che veniva da fuori.

Ricordo che la mattina c’era la distribuzione di un bicchiere di latte a tutti noi bambini, che però non era latte prodotto dalle mucche dell’azienda, bensì latte sterilizzato in bottiglia che faceva davvero schifo. Ricordo anche che all’ora di pranzo venivano serviti piattoni di maccheroni al sugo per i bambini più bisognosi.

In seguito, forse nel ’62, fu costruita una vera scuola a Monticello, un luogo distante circa un chilometro da Sa Zeppara. Ci andavamo a piedi, io e mio fratello, con gli altri bambini dell’azienda.

Subito dopo l’edificio che ospitava l’aula, c’era la villa padronale e poi la nostra casa, al primo piano. Sotto casa nostra c’era la cappella, già sconsacrata all’epoca. Mia madre aveva tentato di utilizzarla come asilo per i bambini piccoli dell’azienda, avevamo comprato quaderni e colori. Ma l’esperimento non aveva funzionato e non saprei dire perché.

Le case degli operai erano proprio dirimpetto alla villa: tutte basse, in pietra viva. Gli ambienti erano angusti, due o tre camere, una delle quali, la cucina, dotata di caminetto. Non ricordo se ci fossero i bagni.

C’era sempre un gran viavai di mezzi, trattori, mietitrebbie, e di uomini indaffarati, sia nei campi, nella stalla o nell’officina.

Ricordo l’enorme capannone riservato alla conservazione delle balle di fieno, e accanto, il ricovero delle macchine agricole con annessa officina.

I padroni venivano di rado. Più spesso, invece, mio padre andava a Cagliari a relazionare sull’andamento dell’azienda. Ricordo i discorsi accesi in dialetto romagnolo tra mio padre e gli zii e il nonno. Babbo si lamentava che i padroni gli dessero poco retta sulle necessità di rinnovamento nella conduzione dell’azienda e sui bisogni degli operai.

Quando arrivavano i padroni, mia madre doveva occuparsi delle pulizie e della sistemazione delle provviste nella villa.

Si faceva aiutare dalle mogli degli operai perché era un compito gravoso.

A noi era proibito di entrare nella villa, anche se in qualche occasione mamma ci aveva permesso di dare un’occhiata.

Ero rimasta impressionata, sembrava enorme. le stanze erano piuttosto spoglie, ricordo un bellissimo caminetto e poco altro.

La villa, sul retro, aveva un porticato che dava su una specie di parco. C’era un lungo viale di palme, il giardino era pieno di fiori e piante che davano l’idea di essere selvatiche.

Appena potevamo, io e mia sorella, entravamo nel giardino di nascosto e ci rifugiavamo sotto il porticato.

I padroni si trattenevano poco in azienda. In genere qualche fine settimana, durante il quale davano delle feste perché portavano sempre degli amici da Cagliari.

E tutta l’Azienda si mobilitava al loro servizio. Quando la figlia dei padroni mi impose di lasciarle la mia bicicletta ( appena regalatami da mio zio), nonostante la rabbia, lo feci. Perché si DOVEVA fare.

Ma non capivo, abituati com’eravamo, con mio fratello, a dividere giochi e sassaiole, botte e scherzi con tutti i bambini dell’azienda.

In effetti, a noi bambini sembrava il paradiso, quella libertà assoluta. I grandi esistevano sotto forma di voci che ordinavano che era ora di mangiare, ora di tornare in casa, ma non intervenivano mai nei nostri giochi.

Ricordo l’odore intenso del fieno, la caccia alle bisce, le sassaiole amichevoli anche se talvolta cruente, ricordo il profilo di Napoleone, il monte che vedevo tutte le mattine affacciandomi dalla finestra della mia cameretta.

Sono tornata a Sa Zeppara pochi anni fa e ci ho portato mia figlia. Ora su una parte del terreno c’è un agriturismo e le case degli operai sono state ristrutturate. ma l’altra metà di ciò che era l’Azienda, è una rovina.

Camminare di straforo in mezzo a quel groviglio di piante e muri crollati… Sì, era lacerante.