Quel che resta di un antico stabilimento per l’imbottigliamento dell’acqua minerale narra una storia lunga e travagliata
Se oggi la San Martino è una delle più importanti aziende di acqua minerale nel panorama sardo, non altrettanto favorevole è stato il destino del vicino stabilimento Montes. Eppure anche questi ruderi dispersi tra le desolate campagne dell’altopiano che domina la basilica di Saccargia hanno una storia da raccontare. Una storia di un tentativo fallito, di un errore di valutazione, una piccola battaglia commerciale d’altri tempi, ma anche di tenacia e resistenza nei confronti di chi è dotato di maggiori capacità tecnologiche e produttive. Ma per capirne di più bisogna tornare indietro di qualche secolo.
Siamo nel primo secolo a.C., quando i Romani costruiscono un acquedotto lungo 35 chilometri che dall’altopiano convoglia le acque direttamente al centro di Turris Libisonis, ovvero l’odierna Porto Torres. La zona è frequentata fin dai tempi dei nuragici proprio per la presenza di fonti e sorgenti termali. Ma sono i Romani i primi a sfruttarla, come hanno fatto e faranno in molte altre zone dell’Isola. Segue quindi un lunghissimo oblio.
Come scrive La Marmora nel suo Viaggio in Sardegna:
“…purtroppo i Sardi non hanno seguito l’esempio dei Romani, […] ed hanno abbandonato una parte delle sorgenti, tanto che resta solo qualche traccia delle antiche costruzioni. Non ci si è preoccupati di fare analisi precise delle acque minerali, sebbene varie sorgenti siano frequentate nel corso dell’estate dalla gente che abita nei dintorni; ma l’afflusso dei malati dipende dalla celebrità del luogo e dalla fama di qualche guarigione casuale piuttosto che dai consigli degli esperti.”
Solo nel 1776 si torna a parlare di queste sorgenti. Sul posto giungono a più riprese alcune delegazioni dei Savoia che effettuano delle analisi chimico-fisiche delle acque e ne esaltano le proprietà terapeutiche. L’attenzione dei tecnici è rivolta soprattutto alla fonte più ricca, quella di San Martino (conosciuta anche come San Martino di Beda, dal nome di un vicino villaggio medioevale scomparso), dove – in seguito a un decreto del Vicerè d’Italia – nel 1828 iniziano i lavori di conservazione della sorgente.
L’assenza di una vera e propria struttura organizzata viene segnalata anche dall’abate Goffredo Casalis nel suo Dizionario storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna del 1833:
“La virtù di queste acque in molte malattie, per cui sono prescritte dai medici, è contestata da stupende guarigioni. Duole il vedere come non siasi ancora potuto eseguire il bel divisario di uno stabilimento, dove gli ammalati potessero star comodamente. Nella condizione attuale del luogo nè un terzo degli ammalati, cui queste acque gioverebbero, può profittarne; però che non v’ha nè una capanna, dove ricoverarsi, e in certi tempi deve assai temersi della malignità dell’aria.”
Nel 1870 la gestione della fonte passa dall’amministrazione del vicino paese di Codrongianos al Consiglio Provinciale di Sassari, che ne auspica un utilizzo su scala più ampia – cioè di imbottigliamento e commercio – anche per merito della notorietà apportata ancora da La Marmora nel suo Itinerario nell’isola di Sardegna (1860):
“Il compianto dottor Sachero affermava che, bevuta, era efficace contro le irritazioni della mucosa dell’apparato digestivo, e in generale di tutte le mucose; la prescriveva per le affezioni gastro-epatiche lente, i calcoli del fegato e della milza eccetera. Ne consigliava anche l’uso esterno in bagni, come un eccellente rimedio contro tutte le punture velenose sul tipo di quella della vipera e di altri animali; infine pensava che il deposito ferruginoso che resta in fondo alla sorgente è eccellente contro i tumori e per guarire altre malattie esterne.”
A questo punto, siamo nel 1893, anche le autorità si rendono finalmente conto delle grandi potenzialità di queste sorgenti, e qualcosa inizia a muoversi. A suggerire l’opportunità di uno sfruttamento industriale è la relazione di un consigliere provinciale in cui si denuncia l’intensa attività di alcuni venditori ambulanti, definiti “speculatori”, i quali facevano la spola tra Sassari e San Martino per imbottigliare l’acqua con mezzi di fortuna e venderla agli alberghi della città.
A Sassari non stanno a guardare, e la risposta non si fa attendere: nel 1902 la Provincia stessa inaugura ufficialmente la produzione industriale dell’acqua “San Martino”. Vengono inizialmente assunte cinquanta donne che confezionano l’acqua in bottiglie di vetro con tappi di sughero, che vengono poi sistemate in casse di legno. Da qui in poi l’azienda si espande sempre di più, fino a diventare una delle protagoniste del mercato sardo.
Il grande successo della San Martino non passa inosservato e, sperando di ricalcarne le orme, qualcun altro si fa avanti interessandosi alle acque dell’altopiano. Questo qualcuno sono due noti imprenditori sassaresi dell’epoca: l’oculista Eugenio Altara e l’ingegnere Gavino Canalis, che solo pochi anni dopo, tra il 1905 e il 1906, costruiscono un altro stabilimento presso una sorgente situata a meno di un chilometro a est di San Martino. Una volta ottenuta la concessione dal titolare del terreno, già sede di una presistente azienda agricola attorno alla quale verrà edificato il resto dell’impianto, nasce la “Altara e Canalis – Concessionari delle acque minerali Montes”. Iniziano quindi le operazioni di imbottigliamento e di vendita, seppure con modalità più artigianali rispetto ai più equipaggiati concorrenti statali.
Ben presto il sogno dei due imprenditori fallisce a causa di una serie di errori di valutazione. Dopo appena due anni di vita, lo stabilimento Montes si trova in gravi difficoltà economiche, e gli stessi creditori che ne avevano supportato la nascita, finanziando il progetto di Altara e Canalis, si lanciano in un assedio che sembra decretarne la fine. Nonostante ciò, l’attività produttiva – tra l’eroico e il disperato – continua, allo scopo di procrastinare il più possibile lo spettro del fallimento. Lo stallo viene superato nel 1909 con l’acquisto dell’impianto da parte dello stesso proprietario del terreno, che rischiava anch’egli di seguire il fallimentare destino dei due soci.
Ma per la Montes non è ancora giunta l’ultima ora: proprio uno dei creditori, l’imprenditore Eugenio Serra Ferracciu, che negli anni ’30 salirà al vertice dell’Associazione degli Industriali Sassaresi, prende le redini e diventa il nuovo concessionario della sorgente. Seppure lontana dai grandi numeri della San Martino, l’azienda va avanti negli anni mantenendo un’attività produttiva dignitosa, sottolineata anche dal fatto che nel 1934 in tutta la Sardegna esistevano solo quattro attività di imbottigliamento e commercializzazione delle acque minerali e tre di esse operano in provicia di Sassari: la San Martino, La Montes e la Santa Lucia di Bonorva. In provincia di Cagliari c’è l’Acqua di Sardara.
Lo stabilimento, improntato ormai su una conduzione di tipo familiare, sopravvive anche alla scomparsa dell’imprenditore, e viene infatti gestito dai suoi figli in maniera encomiabile. Solo nell’ultimo anno di attività, infatti, la produzione era pari a 285.000 litri contro i 7.500.000 di litri della San Martino: siamo ormai nel 1969, anno in cui si ha la chiusura definitiva e si aprono le porte all’inesorabile abbandono. Restano solo le rovine, a suggerirci la storia che abbiamo raccontato.
Lo stabilimento si estende in un terreno recintato di circa mezzo ettaro e consta di tre edifici, due dei quali, come capita spesso, nel corso degli anni sono diventati ovili.
L’edificio situato a nord è forse quello più caratteristico, e ipotizziamo che fosse quello principale dell’impianto di produzione. Di forma rettangolare, ha un’architettura povera, in stile vagamente Liberty, con finestre con arco a sesto acuto. Al suo interno si trova una struttura rialzata che occupa metà della stanza (verosimilmente una cisterna), un serbatoio con alcune tubature residue e una stanzetta attigua con delle vasche piastrellate, dove forse venivano effettuate le operazioni di imbottigliamento.
L’edificio centrale, di cui rimangono solo i ruderi, è di stile e periodo antecedente rispetto agli altri due, e costituiva la sede della vecchia azienda agricola attorno alla quale è sorto il resto dello stabilimento. L’aspetto, se non fosse per il fatto che è suddiviso da tre piccole stanzette separate, sembrerebbe quasi quello di una chiesetta campestre, inclusi tre piccoli contrafforti sul lato sud. Anche qui, al suo interno si rinvengono alcuni resti di quello che probabilmente era un macchinario di imbottigliamento. L’edificio sud, invece, è più anonimo ed è probabile che venisse utilizzato come alloggio dagli operai dello stabilimento.
Ovviamente non è escluso che le strutture negli ultimi decenni siano state utilizzate anche per altri scopi. Difficilmente i luoghi abbandonati restano effettivamente abbandonati: di solito hanno più vite e si trasformano più volte nel corso del tempo, fino a una morte solo apparente nell’istante in cui noi li catturiamo. Ma in futuro, chissà. Questo è quello che si vede oggi. Questo è quello che possiamo raccontare.
(ringraziamo Alessandro Sirigu e Fiorella Tilloca per la preziosa collaborazione e le informazioni forniteci)
Foto
DOVE SI TROVA: a pochi chilometri da Sassari. Dalla 131 uscire dallo svincolo per San Martino Bagni e percorrere la strada provinciale 58 per 4 Km. Oltrepassata l’azienda San Martino, proseguire per altri 900 metri fino a scorgere lo stabilimento in una campagna sulla destra. Google Maps.