Voce dei poveri resti di un sogno mancato
È un’esperienza forte. Perché come spesso accade si possono guardare filmati e fotografie, leggere la cronaca e sentire esperienze di chi ci è già stato, ma non si arriva pronti a quello che si scatena una volta che si cammina tra quei rottami.
Inizia tutto dai social, da una storia di chi c’è stato prima di noi, e incuriositi chiediamo delucidazioni, non conoscendo. La persona ci indirizza a dc9.sardiniaimage.it e lì si apre un mondo. Nella sua semplicità, questo sito offre un’accurata panoramica della cronaca, con documenti storici e tecnici e racconta con passione le vicissitudini successive allo schianto e quanto significhi ancora oggi questo luogo.
L’introduzione recita: “Il 14 settembre 1979, un DC9-32 con marche I-ATJC, partito da Alghero e diretto a Cagliari, si schiantò sui monti tra Capoterra e Sarroch. Nell’incidente morirono tutti i 27 passeggeri e i 4 uomini dell’equipaggio. È la più grave sciagura dell’aria avvenuta in Sardegna.”
Dalla base di Iglesias ci rechiamo in questo sacrario a cielo aperto. Dopo una salita impegnativa vista la strada bianca, con pozze d’acqua, pietre e qualche fosso, arriviamo all’Arcu di S’Enna Sa Craba, un valico con uno spiazzo dove poter lasciare la macchina, proprio sotto ad un vascone antincendio. Poco più di sette chilometri ci separano in linea d’aria dalla miniera di San Leone e ancora meno dall’Osservatorio astronomico di Poggio dei Pini, ma come scendiamo dalla macchina, capiamo benissimo di essere in un’altra dimensione. Per quella che non sarà una “passeggiata” manca l’imbocco del sentiero e un signore esperto della zona, che stava camminando per conto suo, ci indirizza sul sentiero. Dopo qualche gradino di roccia, ecco che si mostra la stretta via. Il percorso è un tappeto di corbezzoli, come se centinaia di Pollicino si siano dati appuntamento e abbiano lasciato per noi queste tracce da seguire. Il terreno è insidioso, è piovuto tanto nei giorni precedenti, ma il tratto iniziale scorre senza intoppi. Al primo muro della montagna ritroviamo la via lasciata dai sassi. Questa seconda parte è bella ripida, ci fermiamo spesso per riprendere fiato, ci aggrappiamo ai rami per facilitare l’ascesa e sostiamo per ammirare il panorama e i resti di animali.
Passata l’irta salita, il terreno diventa più facilmente percorribile e dal navigatore capiamo di essere arrivati. Gli occhi a poco a poco si abituano alla penombra del bosco, e iniziamo a notare qualche pezzo sparso, ma il primo shock, arriva quando vediamo la coda della fusoliera. Da qui un turbinio di emozioni e sensazioni inaudite. Prima l’adrenalina della scalata e dell’arrivo in questo posto di lutto, attirati da misteri, tragedie e dalle loro storie. Dopo dobbiamo assimilare quello che abbiamo davanti. Siamo in un sogno? Davvero ci sono certe cose innanzi a noi? Per verificare, tocchiamo il materiale, ma anche dopo la prova del tatto, le sensazioni non cambiano. Quando arriviamo alla coda e al motore destro, non abbiamo parole se non “Oh mio Dio“. Dopo il turbamento arriva però il fastidio nel vedere le tante scritte lasciate sui resti della tragedia: altrove belle, qui fuori contesto. Azzardando un paragone, sarebbe come farle sulle lapidi di un cimitero o cippi commemorativi. Ci avviciniamo proprio ai componenti del motore e sembra che da un momento all’altro, si possa sentire il mettere in moto e che il compressore centrifugo inizi il suo lavoro: ha una struttura ipnotica, ci si perde nella sua forma a spirale, e i meccanismi, nonostante il tempo passato, vediamo che funzionano ancora. Lamiere ancora taglienti che possono ferire noi e altri visitatori. Come a dire che da qui non si riparte senza un ricordo, quasi il luogo fosse vivo, e si renda conto delle visite che riceve. Orientarsi in un posto così è difficile, si perdono i punti di riferimento, sei guidato solo dai tantissimi resti che sembrano adagiati da una forza immane, per formare uno schema misterioso; gli alberi coi rami ad altezza della testa, qualche volta ci toccano e ci ricordano di fare attenzione. Tra i due motori, vediamo uno sportello, che sembra vecchio di mesi, non di anni. Il tutto non dimostra che ne siano passati 43, vista la mancanza di ruggine: sembra una tragedia più recente, che rende le emozioni più acute. Davanti al motore sinistro, appoggiato su una lamiera, notiamo un vaso con dei fiori lasciati da qualcuno in segno di rispetto al luogo.
Nella fusoliera fanno impressione gli spazi dei finestrini, immaginare le vittime, ignare del destino, appoggiate ai vetri, che guardano le luci delle città sottostanti e pensano di essere quasi arrivate a destinazione. Al carrello le grandi gomme sono ancora al loro posto, con battistrada e qualche segno di muschio sul nero, con l’acciaio dell’assorbitore di urti ancora lucido. Verso un dirupo ancora pezzi di carlinga, ma gli ultimi resti diventano irraggiungibili, visto il terreno scivoloso e i burroni in successione. Salendo un’altra scossa: un mocassino spunta dal terreno, lasciandoci inermi. Non più ferro, ma pelle. Non più la freddezza dell’acciaio ma il calore di una calzatura da fine estate.
Come ultima tappa, proviamo ad arrivare alla stele. Sulla salita rocciosa, il panorama si apre del tutto, e dalla croce con la lapide poco più in basso, la vista per un attimo ci fa dimenticare dove siamo. Ma dietro la lastra, foto, frasi ed effetti personali delle vittime ci tolgono nuovamente il respiro davanti a tante vite interrotte. Rimane una piccola croce, incastrata dentro la roccia, poco più in basso, con un pezzo di rottame infilato e una scritta fatta a saldatura. Da quel punto si torna alla coda, che vista dall’alto sembra quasi un tetto, un riparo, una cosa che va contro quello che invece è. La via del ritorno è mesta, triste, fra pensieri che si accalcano e tentativi di metabolizzare. Sappiamo da chi c’è stato prima di noi che passeranno giorni prima di rendersi conto, e infatti, nelle giornate successive, nonostante le altre cose che riusciamo a vedere, il pensiero nei momenti di calma torna sempre a quei resti. Tuttora è impossibile dare un significato, una spiegazione a un triste destino, ma le tragedie sappiamo essere così: affascinanti e inspiegabili.
Dove si trova: al confine fra il territorio comunale di Sarroch e Capoterra (CA), nella zona denominata Arcu di S’Enna Sa Craba. Ci si arriva dopo un’impegnativa escursione dalla Strada Statale 195 Sulcitana, svoltando alla prima uscita della rotonda di San Girolamo, proseguendo per Petit Residence o strada vicinale Su Spantu, che diventa strada vicinale Baccalamanza. Google Maps. Wikimapia.