L’indagine impossibile di Sardegna Abbandonata. Indizi che non sappiamo dove ci porteranno, ma che sentiamo di dover seguire.
INDIZIO N.1 – LA FORCHETTA
Trovata in un orfanotrofio abbandonato, si fa notare subito per un rebbio (si chiamano così i “denti” della forchetta) spezzato a metà. La forma affusolata ed elegante farebbe pensare a un oggetto antico, così come il tipico colore blu-grigio dell’ossidazione. Infatti la nostra ipotesi è che la forchetta sia fatta in alpacca, detto anche “argentone” una vecchia alternativa economica alle posate in argento prima che prendesse piede l’acciaio inox. Si trattava di una lega fatta principalmente di rame, particolarmente resistente all’ossidazione, dunque la nostra forchetta, per aver preso questo bel colore freddo, deve avere avuto una vita piuttosto brutta. Oltre al rebbio spezzato colpisce anche il fatto che questa posata sia numerata: guardando bene il manico notiamo infatti un numero, sembra essere il quarantuno. Cosa significa? Non è la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto, questo è sicuro, ma è un indizio che non possiamo ignorare. Probabilmente faceva parte di un set. Nella smorfia napoletana il 41 è ‘o curtiello, il coltello, posata che di solito accompagniamo alla forchetta. Pochi sanno che, una volta giunta in Occidente, la forchetta è stata a lungo tempo considerata uno strumento demoniaco. Gli uomini di Chiesa la ritenevano uno strumento di mollezza e perversione diabolica, tanto che la terribile morte per gangrena di una principessa bizantina venne vista come una giusta punizione divina per aver usato la forchetta. Il fatto che all’epoca avesse solo due rebbi, e che dunque ricordasse le corna del diavolo, di certo non aiutava. Ci vollero circa settecento anni perché questa posata venisse accettata anche dalla Chiesa. Ma perché alla nostra forchetta abbandonata manca un pezzo? E soprattutto, dov’è finito? E cosa vuol dire 41? Domande per ora senza risposta, per questo primo indizio.
INDIZIO N.2 – IL CONFESSIONALE
Un confessionale abbandonato, in una grande azienda agricola abbandonata. Possiamo senza dubbio dire che la messa qua è finita da ormai cinquant’anni. Il confessionale si trova in una chiesa dal curioso impianto circolare, oggi affrescata da suggestive chiazze di muffa verde e dall’intonaco sempre più scrostato. A parte qualche inginocchiatoio e i resti dell’altare, della chiesa è rimasto ben poco, non c’è nemmeno una croce. Eppure c’è questo confessionale, sorprendentemente ben conservato considerato che è di legno e che è rimasto esposto all’umidità per tanti anni. Se c’è un posto dove sentirsi soli con Dio è sicuramente questo. Fuori solo il vento, il passaggio di qualche capra e la forestale che di tanto in tanto mette e toglie i sigilli. Dentro il silenzio, l’echeggiare dei nostri passi e dei nostri peccati. Come mai il confessionale è rimasto qua, quasi intatto? Un impregnante idrofugo di primissima qualità, praticamente divina? E chi sarà stata l’ultima persona a essersi confessata qua, e per quali peccati? Non lo sapremo mai, anche perché il sigillo sacramentale, noto anche come segreto confessionale, obbliga i sacerdoti alla segretezza assoluta, e a differenza di quelli dei carabinieri e della forestale, non può essere messo e tolto secondo i capricci della Regione. Inoltre, peccatori e confessori, a quest’ora saranno tutti morti, dunque ciò che è stato detto qua resterà qua per sempre. Amen.
INDIZIO N.3 – L’INTERRUTTORE
Datemi un interruttore e vi spegnerò il mondo. Questo indizio l’abbiamo trovato in una base militare abbandonata sulla cima di una montagna sarda. Da qui, durante la Guerra Fredda, venivano trasmessi messaggi in codice con i segnali radio a microonde. Ormai da molti decenni tutti gli interruttori della base sono su OFF. Anche questo che abbiamo preso come indizio per la nostra indagine non fa eccezione. Bellissimo, almeno per noi che siamo dei veri feticisti del genere, lo scrostamento della vernice. Salta subito all’occhio anche l’origine statunitense dell’apparecchiatura. È un cosiddetto “toggle switch”, cioè un interruttore a due posizioni, dal bellissimo verbo “to toggle”, girare, far scattare, attivare, disattivare, commutare. Insomma, in uno scatto si passa da una situazione all’altra, dall’ON all’OFF, dalla pace alla bomba atomica. I primi modelli di questi interruttori sono stati disegnati nel 1916. A metà anni ’80 sono stati quasi del tutto soppiantati da interruttori moderni e più silenziosi. Il nostro dunque è un reperto storico del design elettrico made in USA del periodo prima della caduta del muro di Berlino, di quando si pensava che il mondo potesse finire da un momento all’altro per il capriccio di una delle due grandi potenze mondiali, Stati Uniti e Unione Sovietica – pensate che ingenui. Ma l’interruttore è anche un oggetto importante del mondo onirico: è il sogno ricorrente di molte persone sognare di accendere la luce e non riuscirci. Oppure, viceversa, alcuni sognano di voler spegnere la luce, ma la luce non si spegne. Insomma, nei sogni gli interruttori sembrano non funzionare e in molti casi l’esperienza onirica si interrompe proprio nel tentativo di accendere o spegnere la luce. Considerando che anche in questo caso, che si faccia scattare l’interruttore su ON o su OFF non cambia nulla, ci viene il sospetto che forse sia tutto un sogno. Non c’è nessuna bomba. Oppure è già esplosa.
INDIZIO N.4 – LA MOLLETTA
Si sta come in cortile sui fili le mollette. All’apparenza questo indizio può apparire poco significativo, eppure potrebbe essere uno dei più importanti dell’intera indagine. Restiamo cauti perché la certezza l’avremo solo a indagine conclusa, per ora non possiamo che affidarci al potere dell’intuizione. All’apparenza questa molletta è solo una molletta abbandonata trovata in un paese fantasma dove c’era poco altro. E già questo ci colpisce. Tutto è stato portato via, perfino alcuni degli infissi, ma non questa molletta. Capita spesso, quando si stende e poi si ritira il bucato, di dimenticare almeno una molletta. Ecco, al momento dell’abbandono definitivo del paese, nei primi anni ’90, cioè trent’anni fa, le altre mollette sono state portate via, per essere riutilizzate altrove oppure per essere buttate. Questa invece è stata dimenticata qua. In un certo senso affidata alla vita eterna (almeno finché regge la molla interna in ferro, diciamo). Una condanna oppure una grazia? La vita stessa è una condanna o una fortuna? C’è chi vorrebbe vivere per sempre, chi invece si accontenta di lasciare il filo, a un certo punto. Questa molletta non ha scelto il suo destino, come nessuno di noi, dopotutto, e si ritrova da trent’anni a vivere sul filo, letteralmente. Non del rasoio ma di un semplice filo da bucato. E a questo punto la domanda che affiora nella mente di chi indaga è la seguente: è davvero stata lasciata qua per caso, per semplice distrazione, oppure è qua appositamente come monito per noi, per essere vista? E in questo caso, per dirci cosa? Forse è un segno per i futuri archeologi che tra mille o 2mila anni, quando le case saranno ormai quasi invisibili, ricoperte dalle vegetazione, almeno potranno trovare un manufatto, capire che l’essere umano è stato qua, probabilmente sostenere che questa era una molletta sacra sul sacro filo che rappresentava la vita o qualche altra follia simile, come abbiamo ipotizzato noi stessi. Se così fosse, resta là ancora qualche secolo, molletta, un giorno finirai in un museo.
INDIZIO N.5 – LA BAMBINA SENZA TESTA
Una bambina senza testa che sembra esultare tra gli scogli sul mare. Questo quinto indizio ci fa perdere la testa per tante ragioni. E non solo a noi: la bambina stessa ha perso la testa, il mare ha portato qua il suo corpo, ma la sua testa potrebbe essere in un altro punto qualsiasi del Mediterraneo. Non sembrano esserci segni evidenti di violenza. L’età approssimativa della bambina è di tre anni e non appare del tutto umana, ma più una specie di cyborg, con una struttura in polimeri, macromolecole di origine sintetica, quasi sicuramente plastica, e altre parti interne assenti (come deduciamo da un cavo che spunta dal collo e dal buco nella pancia), così come la testa. Questo ci ha fatto supporre che la bambina sia o frutto di un esperimento, oppure che sia proveniente dal futuro. La testa mancante ci porterebbe a supporre, al momento, all’assenza di un sistema nervoso centrale e che dunque la bambina si trovi in quella posizione non per scelta ma casualmente. Eppure, non è detto: trattandosi di una tecnologia apparentemente molto sofisticata il sistema nervoso potrebbe essere distribuito in tutto il corpo, un po’ come per i polpi, dunque la bambina potrebbe avere ancora una “coscienza”, se di coscienza si può parlare trattandosi di un cyborg. Non sembra però capace di parlare. Abbiamo provato a comunicare con lei ma è stato del tutto inutile. La testa dunque è quasi certamente necessaria per interagire con la bambina, esattamente come per noi umani. Resta un mistero la posizione delle braccia: perché sembra esultare? La nostra ipotesi è che sia scappata, da qualunque spazio-tempo si trovasse o forse da un laboratorio segreto, e che l’ultimo gesto che ha compiuto sia stato quello che rappresenta la gioia della libertà ritrovata. Non sapendo come agire, ci siamo limitati a registrare questo indizio e a lasciare la bambina sugli scogli: il mare potrebbe riportarla a ricongiungersi alla sua testa e a quel punto potrebbe forse avere una vita “normale”, diciamo così. Sicuramente una vita libera.
INDIZIO N.6 – LA SFERA
Sembrerebbe un oggetto caduto dallo spazio, forse il componente di qualche satellite oppure di un’astronave aliena. In realtà questo quinto indizio è una cosiddetta palla da discoteca, dall’inglese “disco ball”, ovvero una sfera specchiata, una palla a specchi, o se preferite strobosfera o palla stroboscopica. Sì, ha tanti nomi, come tante sono le piccole placche riflettenti di cui è ricoperta. Il mosaico sferico veniva colpito dalla luce dei faretti e la sfera ruotava su se stessa generando i giochi di luce della galassia dance mentre gli esseri umani orbitavano intorno e di solito ballavano al ritmo della musica, almeno i più disinvolti e temerari. Gli altri stavano agli angoli di solito a bere sostanze alcoliche, sperando che questo gli desse il coraggio di buttarsi in pista. Sebbene noi associamo questi oggetti agli anni d’oro della disco, sono più antichi: erano presenti già nei locali notturni degli anni ’20 del Novecento. Il periodo d’oro però coincide con quello delle discoteche, i decenni che vanno dagli anni ’70 agli anni ’90, la scintillata era della dance. Ormai da diversi decenni l’oggetto in questione ha smesso di ruotare e di riflettere la luce. Ha perso pezzi, giace a terra impolverata, non è più in grado di generare allegria grazie ai fotoni, anche perché nella discoteca abbandonata di luce ce n’è pochissima. Non c’è energia elettrica, la maggior parte delle finestre sono murate, tutto intorno calcinacci, ragnatele, guano, vetri rotti. I fievoli raggi di luce che filtrano da una finestra non sono sufficienti per riportare in vita la nostra sfera grigia. Le stelle possono vivere anche per un milione di anni, ma come tutte le cose anche loro nascono, esistono per un po’ e poi muoiono, si trasformano. Alcune esplodono, altre si affievoliscono finché la loro luce scompare. Resta solo la consapevolezza che sono esistite, hanno brillato per un po’, ma ora non ci sono più, anche se alcune possiamo vederle ancora. Esattamente come questo quinto indizio. Non vediamo più la sua luce, ma possiamo sentire l’eco di quella musica lontana.
INDIZIO N.7 – IL MALATOX
Questo indizio racconta di una battaglia persa nell’eterna guerra uomo vs natura. Questo misterioso flaconcino è stato ritrovato in un bizzarro villino, isolato e difficile da individuare perché completamente avvolto da rami, radici, edera, rovi. Nelle vecchie foto, di quasi un secolo fa, appare come una sorta di elegante cottage, con giardino curato, aiuole, fioriere, balconcini in legno. La proprietà era legata a una fabbrica che produceva ammoniaca per uso agricolo, come il solfato ammonico, un fertilizzante che aiuta le piante a crescere meglio. Ma all’interno di questa piccola costruzione ci sono diversi sacchi di pesticidi, diserbanti e insetticidi, tra i quali anche il nostro indizio, il flacone di Malatox. Dunque se nella fabbrica si producevano sostanze per concimare e fertilizzare il terreno, qua la situazione era praticamente opposta. Oggi il grazioso villino sembra un fortino di guerra abbandonato, un avamposto aggredito su tutti i lati dalla vegetazione, come se i soldati si fossero rinchiusi qua dentro perché ormai circondati. Una guerra asimmetrica contro un nemico più forte e non subito identificabile. Hanno provato a resistere, e lo dimostrano le armi ritrovate a terra, i sacchi di polisolfuro di bario, il nebulizzatore a spalla simile a un lanciafiamme, i flaconi di erbicidi di ogni genere e insetticidi come il Malatox. Ma tutto è stato inutile. Dei soldati nessuna traccia. La vegetazione ha ricoperto, avvinghiato e inglobato ogni elemento di questa struttura generando un groviglio inestricabile di radici e rami. La produzione di fertilizzante è andata fuori controllo e le piante hanno preso il sopravvento? Non com’è andata, ma il flacone con l’etichetta arancione scolorita è l’indizio della battaglia che forse solo l’uomo ha pensato di combattere, giacché, come ci ricordava la Natura stessa in una sua celebre dichiarazione: “Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo […] E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.”
INDIZIO N.8 – IL MANICHINO
Una giovane donna riversa a terra tra polvere e detriti, nuda, senza braccia, con gli occhi aperti e lo sguardo inespressivo verso l’alto. Cos’è successo? Si tratta di un manichino ritrovato in un grande magazzino abbandonato in mezzo a molti altri simili. Ma questo in particolare ha destato la nostra attenzione perché è particolarmente perturbante, una parola che viene dal tedesco unheimliche (cioè non a casa, non comodo, estraneo, contrapposto a heimlich, cioè familiare), usata in psicologia per indicare qualcosa che dovrebbe esserci familiare ma ci risulta invece estranea, provocando uno spaesamento, un’improvvisa mancanza di orientamento, una situazione di inquietante incertezza, come di fronte a certe bambole iperrealistiche o robot troppo umanizzati. Se infatti ci trovassimo di fronte a una reale donna amputata e abbandonata in un magazzino la nostra reazione sarebbe molto diversa: orrore, spavento, ma sapremmo esattamente cos’è. Il manichino si trova invece in uno strano confine. Perché è comunque un cadavere, ma di qualcosa che non era vivo. In effetti la sensazione sgradevole che può capitare di provare di fronte a un corpo morto è dovuta proprio all’associazione dell’inanimato a un elemento considerato vivo. Il manichino, anche se sappiamo che non è mai stato vivo, ha in noi comunque lo stesso effetto, e ci mette di fronte alla nostra mortalità, alle nostre paura più profonde, al nostro rapporto con la morte e quindi con la vita. L’assenza di braccia aggiunte straniamento: così come la Venere di Milo e altre statue dell’antichità, la giovane donna ha perso gli arti, confusi nel disordine del magazzino abbandonato assieme a quelli di molti altri manichini in mucchi di gambe, teste e braccia. Con i cadaveri si usa come prima cosa chiudere gli occhi, proprio per renderli subito meno impressionanti, ufficializzandone la morte. Con questa giovane donna non possiamo farlo perché è priva di palpebre. Essendo fatta di plastica il suo sguardo fisso verso il soffitto durerà migliaia di anni. Noi saremo morti, mentre lei, che viva non lo è mai stata, in un certo senso lo sarà per sempre.
INDIZIO N.9 – LA SCARPA
Questo nono indizio è uno dei simboli più significativi dell’abbandono. Troviamo scarpe abbandonate ovunque, per strada, nelle città, in campagna. A volte una sola, a volte entrambe, a volte vecchie e rovinate, a volte nuove come appena uscite dal negozio. È un’immagine talmente comune che ci siamo abituati. Ogni scarpa ha il suo motivo per essere stata abbandonata, ma non sappiamo quale. Quello che ci colpisce guardandole è quello che manca. Di solito infatti sono attaccate a un corpo. Guardando la scarpa vediamo l’assenza, sono ombre di un oggetto non presente, ovvero la persona che le calzava. Come se fosse sparito improvvisamente e fossero rimaste solo loro, le scarpe. Noi investigatori non possiamo che chiederci: perché una sola, dov’è l’altra? È stata buttata oppure dimenticata qua? Il proprietario è andato via saltellando? O forse è stata abbandonata intenzionalmente per lasciare un messaggio? Un enigma sottolineato perfino dalla scarpa stessa che, consapevole di essere un potente simbolo dell’ignoto, accoglie una piccola colonia di tessere di puzzle. Tessere di un puzzle molto più grande, ovvero l’indagine che stiamo portando avanti. Questo indizio è stato trovato in un edificio abbandonato, ma la scarpa potrebbe anche non essere legata alla storia dell’edificio. È un mocassino scamosciato a doppia fibbia, in inglese un monk strap. Si tratta di un modello di origine medievale, ovvero la versione moderna delle prime calzature usate dai monaci nei monasteri, i sandali chiusi. Nata per motivi pratici oggi è considerata “molto elegante e formale, adatta soprattutto al mondo del business, con un design minimale e pulito che la rende adatta anche alla vita di tutti i giorni” come leggiamo in una rivista di moda. Ma com’è arrivata qua e perché? La fibbia è ossidata, la tomaia scamosciata è un luna park per le muffe, dunque sembra essere qui da un po’ di tempo. E mentre la scarpa invecchia e si consuma, anche il suo proprietario, se non è morto, forse sta facendo lo stesso, chissà dove: la sua pelle si consuma, la degenerazione è inevitabile.
INDIZIO N.10 – IL CARTELLO
Il decimo indizio l’abbiamo trovato in un cementificio abbandonato. Il cemento viene usato anche per costruire muri, e su quei muri probabilmente verranno messi cartelli di divieto come questo. Ma chi sono queste persone estranee alle quali allude la scritta? E perché a loro era vietato l’accesso? L’etimologia è chiara, estraneo viene da extra, da fuori, da esterno. Potremmo dire che è estraneo chi viene fuori dal muro. Dunque le persone estranee siamo anche noi, siamo tutti, chiunque escluso chi ha messo quel cartello, perché era dall’altra parte del cemento. Ma anche lui, trovandosi altrove, di fronte a qualche altro muro, sarà una persona estranea. Ai fini di questa indagine muri, confini e barriere, sono da considerarsi solo concetti e non realtà. Per noi i muri ci sono proprio per essere scavalcati e superati. Fin da quando eravamo piccoli scavalcare i muri è una delle nostra attività preferite assieme ad arrampicarci sugli alberi, giocare, farci male accidentalmente e portare avanti indagini come questa. Una volta che il muro viene scavalcato non siamo più extra, non siamo più fuori. Niente più extraneus, estranei e stranieri, ma solo persone. Su questo pianeta sono sempre di più i muri e le barriere che stabiliscono confini fisici, di solito per evitare lo spostamento di persone che vengono da un “fuori”, gli estranei, messi da chi pensa di stare in un “dentro”. E su quei muri ci sono cartelli come questi. Ci piace pensare che anche quelli prima o poi cadano a terra e che possano essere calpestati come questo. Mentre gli esseri umani stabiliscono confini per dire chi può stare dentro e chi deve stare fuori, l’erba cresce tranquillamente tra le fratture del cartello. Per l’erba non c’è dentro e non c’è fuori. All’erba, come a noi, piace scavalcare le cose e come altre piante e i funghi è in grado di scavalcare, sfondare o penetrare il cemento con eleganza e senza sforzo. Tra un po’ crescerà abbastanza da coprire completamente il cartello e non sapremo mai chi erano queste “persone estranee”, sarà un concetto che ci saremo dimenticati. L’avremo scavalcato.
INDIZIO N.11 – L’ASCIUGAMANO
Immaginate di entrare in un villaggio operaio abbandonato da trent’anni. Nonostante il tempo passato e l’assenza di manutenzione le case sono in buone condizioni, ma sono come scatole vuote: non c’è più nulla, nemmeno le porte. Rimangono alcuni sanitari, le finestre, e per il resto solo detriti, guano, polvere, ragnatele. E a un certo punto, entrando in uno dei bagni di una delle case abbandonate, c’è un asciugamano sull’apposito porta asciugamano accanto al lavandino. Com’è possibile? Il rubinetto non funziona più dal 1994, non c’è acqua e non ci sono persone da decenni. Ma è rimasto un asciugamano. L’asciugamano serve ad asciugarsi le mani, e per farlo ci vogliono: le mani, l’acqua. In assenza di entrambe le cose questo oggetto diventa un mistero e obbliga la nostra indagine a prendere una piega paranoica. Per noi l’asciugamano non è stato semplicemente dimenticato. Per noi è stato lasciato apposta come segno. Ma segno di cosa? Assieme all’aspetto grammaticale che ci tormenta da tutta la vita – ovvero perché sia più corretto dire asciugamano invece di asciugamani, dato che di solito ci si asciuga entrambe le mani, non solo una – la presenza di questo oggetto è uno dei più grandi misteri che abbiamo incontrato nella nostra indagine. Perché portare via tutto e lasciare l’asciugamano? Quei pallini bianchi su sfondo celeste ci ossessionano, li abbiamo perfino contati, abbiamo provato a unirli nella speranza che apparisse un messaggio. Ma niente, questo asciugamano forse è qua semplicemente senza motivo, o almeno così ci ha detto la nostra psichiatra. Ma poi ci siamo ricordati del giorno in cui abbiamo scattato la foto. Avevamo toccato per sbaglio un mucchio di guano. Con una bottiglietta d’acqua ci siamo puliti e a quel punto, sovrappensiero, ci siamo asciugati la mano con questo asciugamano. Sì, una sola mano. E sì, con questo asciugamano. Dunque era lì per noi? Qualcuno, qualcosa aveva previsto che un giorno, dopo trent’anni, sarebbe tornato utile? La nostra psichiatra dice di lasciare andare questo ricordo, ma forse vuole solo ostacolare l’indagine.
INDIZIO N.12 – IL CERCHIETTO
Un comunissimo cerchietto di plastica bianco, con l’interno dentato, su un davanzale di un enorme edificio abbandonato sul mare. Abbiamo trovato questo indizio in una colonia marina dove generazioni di bambini della zona passavano le estati mentre i genitori lavoravano nelle vicine miniere, anche quelle oggi abbandonate. Ma siccome la colonia è abbandonata da decenni e si trova su una spiaggia molto frequentata, questo cerchietto potrebbe essere di una qualunque persona di passaggio. Se l’è tolto un attimo per fare il bagno, oppure per sentire i capelli più liberi nel vento, o chissà per quale altre motivo. Un gesto di un attimo, probabilmente, e il cerchietto è rimasto là, sul davanzale, ad aspettare di riprendere il suo servizio, il motivo per cui è stato ideato, realizzato, venduto e acquistato, ovvero tenere i capelli lontani dalla testa, evitare che finiscano sugli occhi. Ma siccome è un oggetto che generalmente costa molto poco e a cui difficilmente ci si affeziona, la proprietaria o il proprietario non hanno considerato di tornare indietro a cercarlo, e così il cerchietto è rimasto solo. Pare lo usassero già gli antichi greci, ma in questa forma è diventato molto comune solo negli ultimi secoli. In Inghilterra viene chiamato Alice Band, cioè cerchietto di Alice, perché lo usava la protagonista dei celebri romanzi di Lewis Carrol. E se anche qua una piccola Alice fosse caduta nella tana del Coniglio Bianco dimenticando il suo cerchietto sul davanzale? Dopotutto non è solo possibile, ma molto probabile: l’edificio è pericolante e ci sono vari punti dove è possibile cadere. La persona a cui apparteneva il cerchietto potrebbe essere morta in una buca qua intorno e il suo corpo mai ritrovato: forse ora è ridotto solo a un mucchio di ossa. Oppure potrebbe essere finita in un mondo fantastico e bizzarro dove ci sono bruchi che fumano il narghilè. Comunque sia, il cerchietto è rimasto qua ad aspettare. Magari un giorno un’altra persona lo troverà e deciderà di usarlo, per poi a sua volta perderlo da qualche altra parte. È così che funziona: è il cerchietto della vita.
INDIZIO N. 13 – IL TELEFONO
Il tredicesimo indizio è un telefono Sirio di quelli prodotti per la SIP negli anni ’90, nella classica colorazione bianco avorio con tastierino blu. L’apparecchio, dalle linee semplici ed essenziali, venne disegnato da Giugiaro Design nel 1987. L’abbiamo trovato per terra in un grande resort abbandonato in Costa Smeralda accanto a un grosso ammasso di cacca di piccione. La cornetta è ancora alzata e questo ci porta a domandarci se dall’altra parte del filo ci sia qualcuno in linea che da anni ripete “Pronto! Pronto!”, perso in un’attesa ormai quasi eterna. E più passa il tempo più questo ipotetico personaggio assume i tratti dell’eroe, per la fiducia che continua a nutrire in cuor proprio nella possibilità di una risposta che potrebbe invece non arrivare mai. È la dea Speranza che resta a consolare gli esseri umani, anche quando tutti gli altri dèi abbandonano la terra per l’Olimpo. Qualcuno, prima o poi, potrebbe rispondere. Poi la nostra attenzione si sofferma sul mucchio di guano che sta vicino al telefono, e allora un’immagine di ciò che potrebbe essere accaduto qui si affaccia alla nostra mente. Vediamo un piccione che, con inaudita ostinazione, ha tentato di mandare un messaggio usando il telefono. Forse si trattava di un piccione a cui il messaggio era stato affidato da qualcuno perché lo recapitasse fisicamente a qualcun altro ma che per qualche motivo – un’ala spezzata? L’amore per la tecnologia umana? O forse solo la pigrizia? – aveva preferito provare a inviarlo tramite questo telefono. Forse prima avrà tentato altri modi di comunicare, poi gli è rimasto quello in fondo più semplice. Dalla quantità di feci prodotte capiamo che il piccione deve essere rimasto vicino al telefono molto a lungo, tentando di inviare il messaggio per giorni, forse per mesi. Non sappiamo però se sia riuscito nella sua impresa o se dopo molti tentativi falliti sia poi andato via dal resort, finalmente deciso a portare il messaggio come fanno tutti i piccioni, cioè volando con le proprie ali. Ma questa purtroppo sarebbe una conferma del fatto che la comunicazione interspecie è ancora lontana dall’essere efficiente.
L’Indagine continua…