Estrarre, trasformare, abbandonare
Fa caldo in questo inizio d’estate, molto caldo. Saranno probabilmente anche l’ora, il vestiario scuro, lo spazio aperto e la mancanza di vento che lo rendono insopportabile, ma per le visite in certi luoghi, si fa questo e altro. Inizia tutto da una linea ferroviaria usata solo d’estate, prosegue in montagna a caccia di laghetti artificiali e arriva qui, in questa cava, mentre si andava alla scoperta di altro, più o meno simile.
Al suo interno operava una società edilizia, la ALPES Costruzioni S.R.L. specializzata sia in estrazione, lavorazione e vendita di materiale, che in costruzioni di strade e piste, la quale inizia la sua attività nel 1972, la porta avanti per quasi una quarantina d’anni, vincendo anche importanti gare d’appalto in tutta la Sardegna, arriva ad avere più di cinquanta dipendenti e conclude la sua vita, fallendo ufficialmente il 14 luglio 2011; c’era già nell’aria qualcosa un anno prima, quando un blocco degli operai protestava per mancanza di stipendi.
All’ombra di un ponte, parcheggiamo la macchina, almeno la ritroviamo fresca al ritorno. La strada si divide in due, da un lato un doppio cancello, dall’altro una salita dove ci sono dei bidoni sbiaditi che fanno la guardia, come due cani di ruggine. Tra loro, due depositi in ferro che stanno cambiando colore. Davanti ad esse, un piccolo edificio in cemento, con due stanze, di cui una accessibile.
Entriamo in quella di destra e l’odore di chiuso e di muffa ci fa perdere il respiro per un attimo. Un bagno è inaccessibile dalla mondezza di scartoffie buttata davanti alla porta, in un angolo della stanza, sopra una piccola cassettiera c’è un telefono multifunzione, una scrivania vuota, e di fianco alla porta un altro tavolo da lavoro con carte varie, chiavi, ed un elmetto. La sicurezza prima di tutto, mi raccomando! Appoggiata al muro, una rete matrimoniale: strani incontri…
Un capannone usato come ricovero mezzi ci dona un leggero ristoro dal caldo e ne approfittiamo per curiosare tra i mobili, gli attrezzi e minuteria varia. Alla fine di una leggera discesa, un piccolo deposito è quasi fagocitato dai rovi, mentre dall’altro lato, quella che doveva essere un’officina meccanica all’aperto, offre tante cose da vedere, sia appoggiate su ripiani che appese. Un paio di occhialini di sicurezza catturano la nostra attenzione, mentre per terra, due fari di una macchina hanno ancora un bel colore rosso, segno che il posto non è poi così dimenticato.
Da qui in poi gli spazi esterni diventano smisurati, facendo un calcolo veloce sulle mappe, siamo sui 15 ettari di terreno, e, come si dice in sardo, “a bellu a bellu” continuiamo l’esplorazione.
Isolato da tutto, salta all’occhio un frantoio a mascella, probabilmente terziario, composto da due grandi ruote e un motorino, con sotto lo scarico al coperto: è splendido nella sua forma, con quei colori così caldi e le scritte che ancora risaltano. È grazie a loro che risaliamo al suo utilizzo.
I macchinari della preparazione del bitume sembrano più piccoli di quello che sono, perché come ci avviciniamo, l’impianto con i 4 predosatori dei materiali, le tramogge, il forno a tamburo e l’impastatrice si rivelano nella loro grandezza. Un rullo conserva ancora il suo colore scuro, un serbatoio verticale è macchiato di ruggine, e il giallo di un fusto non è poi così sbiadito. Gli odori sono quelli tipici di un posto del genere, una combinazione di miasmi di oli esausti che creano una pozza per terra, il misto di plastica calda e ferro, polvere e flora secca.
Le cabine elettriche sono stranamente integre, gli interruttori sono tutti alzati, anche se non si sente nulla di acceso: del resto, come potrebbe. Da una scala esterna, si accede alla stanza dove c’è il pannello di controllo principale di tutta la fabbrica, che con il suo verde e la base gialla, si nota subito come aggiri la grande impastatrice sostenuta da 4 strutture in ferro. Le giriamo un po’ attorno per vedere il complesso da un altro punto di vista, il pavimento di ferro che la circonda è completamente arrugginito, in alcuni punti sta per cedere, e nonostante il nostro peso sia contenuto, preferiamo non rischiare troppo, quindi dallo spazio lasciato dalla porta divelta e appoggiata alla ringhiera, entriamo nella stanza e anche se l’ingresso è praticamente libero, il caldo ci colpisce subito.
C’è una potente afa e l’aria è quasi irrespirabile, ma quello che vediamo ci lascia incantati: una grande pulsantiera tutta etichettata cattura immediatamente l’attenzione, te la ritrovi subito davanti, lì dentro è lei la protagonista. Sotto si trovano altre leve e piccoli pannelli, mentre sopra, spostati più avanti, campeggiano tre grandi indicatori tondi che servivano a misurare temperature varie. Sembrano tre bilance.
Su un ripiano, di lato, un portapenne, fogli, e qualche utensile, che ritroviamo anche sopra il pannello, mentre appesa al muro una tabella di ragguaglio di un macchinario ci fornisce indizi su cosa cercare una volta arrivati a casa. Ancora dietro i grandi cerchi indicatori, tutto l’impianto elettrico che forniva energia alla sala: diventa un perdersi in particolari, tra cavi, attaccature, led e altri bottoni. Poggiati per terra, due porta attrezzi a scomparti hanno ancora all’interno qualcosa. Che meraviglia di sala, così “pulita” e ben conservata era da tanto che non ne vedevamo una.
Lo sguardo corre tra i nomi e le funzioni dei vari bottoni, ognuno con la propria etichetta e la propria spia, il grande pulsante rosso di arresto d’emergenza, la chiave ancora inserita nel comando di accensione: restiamo tutt’ora affascinati da una tecnologia del genere, conosciuta e vissuta, certo, ma con la testa ormai abituata a schermi tattili o con pannelli più moderni. Un tuffo nel passato, non troppo distante, che ci fa pensare in quanto poco tempo la tecnologia abbia fatto passi da gigante, e di quanto poco basti per far fallire e cadere nel dimenticatoio una fabbrica. Cosa sarà successo?
Le domande si accalcano, spero trovino risposte più tardi. Andando verso l’altro lato della grande area, passiamo di fianco ad un ulteriore deposito, e due grandi serbatoi, dove il pavimento è macchiato di olio e all’esterno c’è tutto rovesciato del materiale giallo composto da tante sfere, leggero e quasi impalpabile al tatto.
Da quel punto in poi è tutto spazio aperto, la cava ti fa da enorme parete, i gradoni sono incalcolabili, e distante dall’impianto, c’è una parabola usata probabilmente per le comunicazioni: è ancora in piedi sul suo piedistallo, collegata a dei fili che chissà dove conducono.
Ad una centinaio di metri dall’antenna, un casolare di un bianco acceso che scopriamo essere l’impianto di energia principale, ci sta chiamando: facciamo il giro per controllare eventuali ospiti, alati o a quattro zampe, perché tutto intorno ci sono tracce di bestiame, e notiamo che ha tre stanze separate; sull’ingresso della prima a sinistra leggiamo cabina elettrica e siamo elettrizzati, speriamo ci sia ancora all’interno, e come apriamo la porta vediamo che c’è tutto l’impianto: il rosso delle resistenze è ancora bello acceso, il metallo è quasi lucido e i fogli di istruzioni sembrano nuovi.
Di fianco, la sala dell’impianto di trasformazione è vuota, c’è solo il proseguo dei cavi dal locale adiacente. Manca il più grande, il “locale quadri elettrici”. Un’anta della porta è per terra, ci fa quasi da rampa all’ingresso, e al suo interno troviamo due scrivanie, sedie, giubbotti, un ombrello, un paio di calendari datati 2009 e 2013, un grande bidone in alluminio e cosa molto strana, delle scatolette di cibo sono sopra la scrivania, hanno tracce di ruggine, e ci chiediamo da quanto tempo siano ferme.
Il giro finisce qui, c’è ancora tempo per scattare foto alla zona fronte cava, con quelle strane costruzioni usate per facilitare il trasporto e il carico, ma anche al cadavere di una tartaruga che purtroppo si è rovesciata e non è più riuscita a girarsi. La stanchezza inizia a farsi sentire, e l’acqua nello zaino ha una temperatura adatta per un tè. Uno di noi propone mare, è dato che la giornata è proprio calda, e abbiamo bisogno di un bagno rinfrescante, torniamo subito alla macchina, impostiamo il navigatore e ci dirigiamo alla spiaggia più vicina.
Dove si trova: in uno strano svincolo al chilometro 34+900 della SS672 Sassari-Tempio, che poi in realtà sarebbe il chilometro 59+800 della SS127 Settentrionale Sarda, in località San Rocco. Strutture pericolanti e corrose, accesso vietato e tutte le altre solite brutte cose. Diffidate sempre. Google Maps.
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