Sono ormai lontani gli anni in cui Macomer era il crocevia della Sardegna: importante centro industriale e militare, punto di snodo delle ferrovie isolane nate sotto l’egida dell’ingegnere inglese Benjamin Piercy, la cui villa di Badde Salighes e il villaggio di Padru Mannu erano poco distanti.
Oggi lo sviluppo si è arenato e la decadenza si è impadronita della già fiorente periferia industriale della cittadina. Una delle tante memorie del passato è l’ex Albergo delle Ferrovie (poi ribattezzato negli anni come Albergo stazione e infine uniformato ai tanti Ferrotel sparsi per il Paese), fortemente voluto dallo stesso Piercy e costruito nel 1880, anno dell’inaugurazione ufficiale delle Ferrovie Reali.
Un progetto ambizioso che diede ulteriore impulso e un piccolo tocco di prestigio a Macomer: un edificio in stile liberty, curiosamente simile alla villa Piercy e adiacente alla stazione ferroviaria statale. Fu uno dei primi esempi di albergo di alto livello in Sardegna: durante i suoi novant’anni di premiata attività, nelle sue camere hanno soggiornato personalità quali Giuseppe Garibaldi, Gabriele D’Annunzio, Benito Mussolini e lo scrittore Elio Vittorini.
Restò aperto fino agli anni ’70, quando fu soppiantato dal più moderno e capiente Motel Agip, ora anch’esso abbandonato. I piani superiori vennero chiusi e il pianterreno venne adibito a mensa dei ferrovieri fino alla dismissione definitiva, nel 1994. Poi, l’eterna attesa di un piano di riconversione che sembra non arrivare mai. La Macomer da bere è davvero un lontano ricordo.
Oggi l’albergo è in rovina. Il caratteristico ingresso principale ornato da motivi floreali e colonnine è murato da un’improbabile vetrata contornata di alluminio anodizzato, unico tocco di relativa modernità. Per avere un’idea del suo interno al tempo che fu possiamo affidarci all’immaginazione, o alle parole del Vittorini che, nel suo bellissimo libro Sardegna come un’infanzia del 1936, dà una divertente e divertita descrizione.
“Arriviamo a Macomer quasi alle undici, dentro una fitta oscurità.
Non si capisce dove possa essere l’albergo, né se qui sia veramente il paese. Poche e sparse costruzioni, ai due lati della strada, fin troppo larga, sembrano magazzini o stalle. E c’è odore di carrube.
Ma ecco arriva correndo una specie di sceriffo, che monta in macchina e, dice, ci sistemerà lui. Urlando – guida l’autista ancora per qualche passo, poi lo fa svoltare poi stop. A terra – io e un altro ci si prende a pugni. Abbiamo una gran fame e la gioia di aver fame e d’essere arrivati. L’albergo è lì, alto tre piani. Sotto all’albergo una forma strana di capanna, che alla luce dei fari della macchina luccica d’erba. C’è anche un treno colossale, fermo dirimpetto, o qualcosa di simile. E oltre i muri della strada lontani profili d’alberi che potrebbero essere cipressi.
L’albergo mi piace, è nuovo, ha larghi atrii nudi ad ogni piano, larghe scale; una vera casona di campagna, non finita di mobiliare. Nella sala da pranzo niente altro che un tavolo, anzi tre, riuniti in uno a ferro di cavallo, e nulla assolutamente alle pareti, Sembra la sala di terza d’una sperduta stazione ferroviaria. Tutti i mobili dell’albergo, del resto, sono nello stile dei mobili di ufficio FF.SS.
Però sento che i letti non bastano e che alcuni di noi dovremo sloggiare.
“Per andar dove?”
“Ci sarebbe un Albergo Nuraghe.”
“Si va a vedere?”
Si va, lontano circa mezzo chilometro sulla strada oscura dai magazzini…
Ma torniamo indietro subito dopo, decisi a dormire anche in terra, purché nella nostra casona, che ci è diventata cara. A vederci tornare, con le valigie, la padrona si confonde. Finge di non vederci, invano le chiediamo dei materassi, scappa in cucina. Allora facciamo da noi, e piantiamo accampamento nella camera all’ultimo piano di due della nostra masnada, che s’erano già sistemati. È una camera dipinta in verde pisello, con un soffitto a fiori, senza tende alle finestre.
Vi sono due lettini in ferro nero, come usavano cinquant’anni fa nelle case degli impiegati, ma nuovissimi col cartellino del prezzo attaccato ancora a un piede. Inoltre: una enorme catinella bianca dentro un treppiedi pure di ferro, e su un cassettone dai tiretti spalancati una bambolona cocottesca, rosea, inginocchiata nell’atto di sfilarsi la camicia, che certo qualche commesso viaggiatore napoletano ha dovuto lasciare qui a saldo del conto. Ma il pavimento sembra pulito, è in mattonelle rosse di graniglia come i pavimenti delle cucine, e vasto abbastanza per stenderci i due o tre materassi che abbiamo sottratto dalle camere accanto.
A squarciagola chiediamo delle lenzuola, affacciandoci alla ringhiera delle scale. Già dal pianterreno una voce risponde che non ce ne sono, cioè che ce ne sono ma che bisognerebbe lavarle. Le ingiungiamo di venir su, per spiegarci meglio, e la poveretta vien su. Dice che la padrona è andata a dormire e non può svegliarla per chiederle la chiave del guardaroba. Mentre parla la guardo, è una donna di trent’anni, deve essere cameriera da vent’anni, e nel suo rimpianto di quand’era libera deve ancora sentirsi un poco bambina. Come ai primi giorni del servire. La preghiamo, almeno, di portarci degli asciugamani, lei risponde “domattina”; poi uno le ordina dell’anice e lei se ne va devastata, nel suo cuore di povera diavola che si è alzata all’alba, dal pensiero di rifare le scale.
Se ne va con la selvaggia speranza che capiti un terremoto prima di risalire. Quando è giù, mentre cominciamo a spogliarci, ci accorgiamo di essere senza guanciali. E di nuovo, a squarciagola, dall’alto delle scale le urliamo che ci porti dei guanciali. Ma non ce ne porta, è stizzita, dice che non ce ne sono, e che si può anche dormire senza guanciali.”
Dove si trova: a Macomer, nella zona della stazione dei treni. Google Maps
(grazie a Daniele Cau per la collaborazione)