Un minuscolo villaggio abbandonato sulle sponde del Coghinas. Non è una storia di case e oggetti, ma di una persona e di fotografie non scattate.
Sa Mesana è stato uno dei primi luoghi abbandonati che abbiamo scoperto. Sulla strada che da Oschiri porta alla diga del Coghinas, può apparire come un semplice stazzo, ma in passato era un piccolo villaggio abitato da decine di persone, con tanto di scuola elementare (sull’altro lato della strada) che serviva per i bambini del posto e delle altre minuscole frazioni intorno e forse anche del vicino villaggio Coghinas. Abbandonato da decenni, rimanda a un periodo florido in cui il territorio intorno al lago era una zona attiva e vissuta. Ma col tempo la vita è quasi scomparsa, tutti gli abitanti di questo minuscolo villaggio hanno lasciato le loro case per trasferirsi nella vicina Oschiri o altrove. Anzi, non proprio tutti. Uno è rimasto.
Negli anni siamo stati a Sa Mesana più volte. E più che le casette abbandonate, gli oggetti, i televisori, i giornali, le scarpe, le tracce di vita che siamo soliti osservare e fotografare, siamo rimasti colpiti da un oggetto animato, una persona, cioè l’unico abitante rimasto di Sa Mesana: Tonino.
La prima volta apparve tra le case distrutte e ricoperte di vegetazione incuriosito dalla nostra presenza quanto noi dalla sua, e per un po’ ci guardammo come animali che si studiano per capire chi attaccherà per primo. Ci rivolgemmo a lui in italiano, e lui rispose incespicando un po’ sulle parole, come appena sveglio, come se da secoli non parlasse in un’altra lingua diversa dal sardo; ma poi, col passare dei minuti, la lingua si sciolse e cominciò a parlare un italiano perfetto.
Dopo la diffidenza iniziale, ci raccontò di lui e della sua vita, che era più simile a quella di un eremita che a quella di un pastore. Una delle prime cose che ci chiese fu l’orario, perché, non avendo tv, elettricità e pochi contatti con il mondo esterno (anche se ogni tanto vedeva il fratello e andava a Oschiri per fare compere) si era perso il cambio tra ora legale e solare, cosa che capitava ogni anno, per cui non era più sicuro di che ora fosse. Una volta, ci spiegò, aspettava la corriera per Oschiri e passò un vecchio conoscente che gli disse: “Ma cosa stai aspettando Tonino?” e lui “La corriera” e l’altro rispose “Ma è già passata un’ora fa!”. Alla fine si stufò e decise di non seguire più l’orario, di alzarsi con l’alba e di andare a dormire con il buio. Poi ci chiese se c’erano ancora “il papa tedesco” (Ratzinger si era appena dimesso) e Berlusconi (c’era ancora), e ci parlò di Sa Mesana, delle sue tre pecore, dei ricordi del padre sulla costruzione del Ponte Diana sul Coghinas, evitando però qualsiasi dettaglio sulla sua vita privata. Aveva una casa a Oschiri, dei parenti, ma aveva scelto di restare isolato, abbandonato tra quelle case abbandonate. Quando parlava del passato, si riferiva a un passato molto lontano, di quando era piccolo, come se avesse saltato il passato recente, le cose più vicine, ormai quasi fuori dal tempo, dato che non aveva più nemmeno l’orologio.
Quando gli chiedemmo cosa faceva, come passava le giornate, ci rispose che non faceva niente. Dava da mangiare ai pochi animali che aveva e poi non faceva niente per il resto del giorno. “Nessuno fa niente” replicammo scettici, “è impossibile… la sera dopo cena cosa fai?”. Rispose che stava davanti al caminetto a guardare il fuoco. Noi, desiderosi di ricordi poetici, azzardammo: “E davanti al fuoco rifletti, pensi al passato?”. Ma lui, più radicale di un maestro zen giapponese, ci rispose: “No”.
Parliamo di Tonino perché per noi Sa Mesana è lui, o forse era lui. Per anni siamo passati e l’abbiamo salutato, ci abbiamo parlato, ma recentemente non l’abbiamo più visto. Non sappiamo se ci sia ancora, se sia morto, se sia vivo, se si sia trasferito. La sua casa era tra quelle abbandonate e si mimetizzava alla perfezione, tanto che i fotografi appassionati di posti abbandonati entravano tranquillamente anche nel suo terreno, pensando che ormai non appartenesse a nessuno. A Tonino la cosa dava fastidio. Era abituato a stare solo e tranquillo, a vedere passare giusto i tecnici della centrale idroelettrica e gli operai che in certi periodi lavoravano al villaggio del Coghinas o qualche turista che si era perso. Non sopportava invece i fotografi, motivo per cui non l’abbiamo mai fotografato. O quasi. Curiosamente, l’unica sua foto che abbiamo è quella della sua ombra, entrata nell’inquadratura per sbaglio, mentre scattavamo una foto a una pianta.
Una volta poi Tonino si stufò anche di noi: non voleva più parlare, ci disse “Abbiamo parlato a Natale, abbiamo parlato a Pasqua, quante volte dobbiamo parlare?”. Per lui due volte in cinque mesi erano abbastanza: era come una lunga ed estenuante chiacchierata. Aveva ragione. Ci sentimmo come gli antropologi che vanno a rompere le palle alle tribù di indigeni. A quel punto Tonino, da cordiale e perfino ciarliero – almeno per i suoi standard – si fece silenzioso, scontroso. Mise un muro tra noi e lui. Non voleva più parlare.
Oggi Tonino è un fantasma di Sa Mesana, un solitario che può apparire strano e poco socievole, ma, conoscendolo, si scopre una persona intelligente, piacevole e molto educata. Che sia vivo o morto, non cambia: anche anni fa, passando a Sa Mesana, non era semplice capire subito se fosse presente, dato che la sua casa era identica a quelle abbandonate e non c’era quasi nessuna traccia della sua esistenza, sospesa tra chi era andato via e chi era rimasto.
Non è forse un caso che Sa Mesana significhi “posto di mezzo”. Un posto di mezzo tra il mondo dei vivi e dei morti, della realtà e del sogno, come le ombre che il fuoco proietta sui muri, come l’ombra di Tonino nella nostra foto.
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Non abbiamo mai parlato prima di Sa Mesana, ma tornando là dopo qualche anno e trovando tutto come sempre – le case con i tetti sfondati, qualche vecchia tv, gli abiti negli armadi, le stoviglie ancora sullo scolapiatti sopra il lavabo da 30 anni ad asciugare, il poster di Moana Pozzi impolverato, l’asse da stiro e i vecchi giornali – abbiamo pensato che dovessimo lasciare anche una traccia di Tonino. Un ricordo. Qualcosa di più di un’ombra in un angolo di una foto, convinti che certe fotografie a volte sia meglio non scattarle.
C’è una frase attribuita al fotografo francese Henri Cartier-Bresson, che noi, da non-fotografi, condividiamo:
“Noi fotografi abbiamo sempre a che fare con cose che svaniscono di continuo, e quando sono svanite non c’è espediente che possa farle ritornare. Non possiamo sviluppare e stampare un ricordo.”
DOVE SI TROVA: sul Coghinas, nella strada che porta alla diga e alla centrale idroelettrica. Google Maps.