Abbandonato dal 1984, era l’orfanotrofio dove venivano ospitati, istruiti e avviati al lavoro gli orfani dei minatori e dei militari a Iglesias. Era gestito dalle suore e a Iglesias circolano da sempre voci di abusi, forse solo voci. Oggi i suoi muri danno spazio a sfoghi adolescenziali e giochi trasgressivi che, proprio in un luogo così, assumono un significato particolare.
L’ex orfanotrofio di Iglesias, fondato nel 1923 e abbandonato nel 1984, appare oggi come un contenitore-sfogatoio di quelle pulsioni infantili-adolescenziali in cui ci siamo imbattuti tante volte nei cosiddetti “posti abbandonati”. Cosiddetti perché, una volta esaurita la loro funzione originale, questi luoghi diventano sempre qualcos’altro e, per quanto abbandonati, sono spesso molto frequentati e utilizzati. Soprattutto, come in questo caso, quando non sono in mezzo al nulla ma all’interno di una città. L’ex orfanotrofio “Infanzia e patria” si trova infatti un terreno nella periferia di Iglesias, a due passi dall’ospedale. A fianco c’è un supermercato, nel terreno un orto condiviso realizzato da un’associazione di giovani del posto e, oltre ad essere frequentato da proprietari di cani (in compagnia dei loro cani, ovviamente) e cercatori di asparagi, una parte dell’edificio sembra ospitare – o aver ospitato – anche dei senzatetto.
Ma un capitolo a parte merita quel gioioso, infantile, insensato e spesso surreale satanismo di provincia sparso sulle pareti decadenti (nel senso proprio di decadere, di declino, disgregazione) testimonianza della frequentazione del luogo da parte dei giovani di Iglesias. Come già notato altre volte, peraltro proprio in queste zone del sud della Sardegna (Gonnesa, Villaggio Normann ad esempio), sui muri dei posti abbandonati i giovani danno sfogo ai loro impulsi più reconditi e, ormai con un piede dentro l’età adulta, tornano bambini.
Ecco quindi svastiche, simboli pseudosatanici, donne nude, insulti ai bambini morti, confessioni di aver ucciso Dio (già trovate altrove, chissà se è sempre lo stesso omicida), un Padre Pio dalle sembianze falliche, oscenità disegnate alla bell’e meglio, croci rovesciate, insomma tutto il repertorio di quella simpatica e allo stesso tempo disperata necessità di espressione dei giovani sardi di cui abbiamo parlato più volte (vedi anche la nostra sezione di-segni).
Eppure, proprio in un luogo così, questi segni lasciati sui muri diventano qualcosa di più di un semplice diario della noia di provincia. Suonano come l’eco di un dolore passato e sempre presente, almeno dentro di noi.
Una frase come “bimbi morti bevete il mio piscio” fa riflettere, a prescindere dalle intenzioni dell’anonimo autore che immaginiamo in fase tardo-adolescenziale. E’ quel tipo di crudeltà infantile propria del bambino, che non conosce ancora il bene e il male – o meglio, lo conosce, ma ci gioca come da adulti non ci è più permesso fare – e che paradossalmente se la prende con i propri simili. Allo stesso tempo manifesta la propria confusione ormonale con la rappresentazione di una donna nuda dalle fattezze inquietanti e la scritta “sado mado troia” e, proprio in corrispondenza di quella che un famoso dipinto di Courbet ricordava essere “l’origine del mondo”, una significativa scritta “nel centro dell’inferno”.
In un’altra stanza, al piano superiore, dove ormai rimane poco, giusto qualche sedia, troviamo una scritta ancora più bella, di una trasgressione semplice, casalinga, cioè “cago la casa”. E quale rivolta più trasgressiva, definitiva e fanciullesca vi viene in mente di una defecazione sul pavimento di casa? Eppure, tra un “dio ti amputo le palle”, una dichiarazione d’amore per la guerra e il gioco di parole “orfano-troio” che accoglie i visitatori all’entrata, sotto, tra i muri scrostati, si scorge qualcos’altro. Vecchi disegni di tutt’altro tipo, mattonelle colorate, innocenti alberelli color pastello, e alcune targhe che ci ricordano cos’era questo edificio, la sua storia, le sue origini, il suo passato.
A Iglesias girano varie voci sull’ex orfanotrofio. In molti sono convinti che qua sia successo qualcosa di oscuro che è meglio non ricordare, qualcosa di orrorifico, inquietante. Si parla di violenze e abusi sui bambini. Le cose però potrebbero essere un po’ meno horror. Ovviamente sui singoli episodi personali non possiamo sapere nulla. Per dirlo chiaramente: oggi non siamo in grado di sapere se qualche schiaffo è volato o se qualche bambino ha subito un abuso. E’ possibile, è probabile… Non lo sappiamo. Ma – stando alle ricerche svolte fin qua – quella dell’orfanotrofio “Infanzia e Patria” non sembra esattamente una storia dell’orrore così come viene raccontata. Anzi: testimonianze alla mano, sembrano esserci più ricordi positivi che negativi.
Il problema è che le informazioni di cui gli stessi abitanti di Iglesias sono a conoscenza sono poche e contrastanti, spesso prive di fonte, e per questo alla fine sono rimaste in giro solo certe voci, forse più suggestive. Ma c’è anche qualcuno che, proprio partendo da queste voci, ha indagato a fondo e, tra interviste ai testimoni – cioè gli ex ospiti dell’orfanotrofio – e ricerche negli archivi, ha scoperta questa inedita storia dell’orfanotrofio “Infanzia e Patria di Iglesias”. Una storia indissolubilmente legata al passato minerario della città e a una particolare famiglia, i Boldetti. Ed è a questo qualcuno, Silvia Floris, che lasciamo la parola. Buona lettura.
Breve storia dell’Orfanotrofio “Infanzia e Patria” di Iglesias
di Silvia Floris
L’Orfanotrofio “Infanzia e Patria” si colloca in un contesto di sviluppo economico e urbanistico e prosperità culturale verificatosi ad Iglesias nel corso dell’Ottocento e nella seconda metà del Novecento, avvenuto anche ad opera di una delle famiglie più influenti del tempo, che tanto lustro diede alla città: la famiglia Boldetti.
Alla morte del capostipite Giuseppe, le redini delle attività familiari furono prese da Paolo, primogenito di 10 figli, al quale si devono la modernizzazione del Salto di Gessa, la bonifica del suolo in alcune aree malariche, la costituzione di impianti agricoli e zoo-tecnici nei vastissimi terreni posseduti nei quali fu il primo a piantare la vite americana e il potenziamento di Sant’Angelo con la costruzione della chiesetta e della maestosa e lussuosa residenza estiva (“Villa Alice, in onore a sua moglie Alice Rosasco in Boldetti).
Suo fratello Giuseppe, sposato con Caterina Saccomanno, si prodigò invece per la fondazione del Liceo Scientifico Giorgio Asproni e la scuola di ginnastica Jolao a seguito del potenziamento dell’impianto sportivo di Monteponi.
Come da tradizione di quelli che erano i valori borghesi dell’epoca, mentre i loro mariti si occupavano di affari, le donne si dedicavano alla beneficenza. Fu così che le due cognate, Alice e Caterina, che già partecipavano alla periodica donazione ai poveri di pane e carne cacciata presso la chiesa delle anime in via Azuni, fondarono l’associazione femminile “Infanzia e Patria” con lo scopo di istituire un orfanotrofio, su suggerimento della Croce Rossa Americana.
Il progetto fu presentato il 25 marzo 1918 durante una serata di beneficenza al Teatro Elettra, durante la quale il dottor Tornù spiegò i costi e gli intenti che erano quelli di offrire alloggio, istruzione e inserimento nel mondo del lavoro agli orfani dei minatori e dei militari (la prima guerra mondiale si è da poco conclusa).
Alice Boldetti, Desolina Crotta e Donna Ernestina Rodriguez donarono ciascuna la somma di 10.000 lire; altre 10.000 furono donate dalla Croce Rossa e ulteriori 3.000 furono raccolte durante tre momenti di tè di beneficenza al Circolo di Lettura sito davanti al teatro. In seguito altre donazioni furono rilasciate dalla “Federazione nazionale industriali” (50.000 lire), dal comune (4.000 lire) e dal Liceo G.Asproni (8.000 lire). Il comune, ancora, si impegnava a donare lire 500.000 annue e le miniere lire 100.000 annue.
Nello statuto organico possiamo leggere, velocemente, che si prevedeva l’accoglienza ai bambini dai quattro anni in su, non necessariamente orfani ma anche appartenenti a famiglie non abbienti che non potevano provvedere a loro. Non erano ammessi bambini non vaccinati o che avessero sofferto il vaiolo. Ai ricoverati sarebbe stata impartita un’istruzione elementare e una preparazione professionale in base alle norme stabilite dalle leggi vigenti. Secondo l’articolo 6 l’educazione avrebbe dovuto riguardare anche l’igiene e l’economia domestica; alle donne sarebbero stati impartiti insegnamenti sul buon governo della casa e sull’abitudine “alla sincerità, al rispetto reciproco, all’ordine, all’amore per il lavoro e alla pulizia”.
Nell’articolo 5 si specifica come avrebbero dovuto lavorare nell’istituto educatori professionali con titoli e requisiti e che si sarebbero dovute seguire e assecondare le attitudini e le aspirazioni dei ragazzi. Ancora, nell’articolo 7 si specifica la non disparità di trattamento.
I ragazzi venivano licenziati ai 15 anni e le ragazze ai 16.
A monitorare e vigilare sull’operato nell’Orfanotrofio era stata adibita una commissione (che si riuniva mensilmente per valutare la situazione pedagogica ed economica e stendeva relazioni dettagliate) composta dai maggiori esponenti politici, industriali e dell’alta società, tra i quali spiccano il sindaco Angelo Corsi, l’avvocato Pintus-Pabis, l’ingegner Wright oltre che vari Rodriguez, Binetti e Boldetti. Il presidente eletta dall’associazione femminile era Zeffira Negri, moglie del sottoprefetto di Iglesias.
Il regolamento interno stabiliva che il direttore, nonché economo e censore, dovesse essere un sacerdote, al quale, come a tutti gli assistenti, si offriva vitto e alloggio. La cucina, la biancheria, la pulizia e l’istruzione era affidata alle suore, guidate dalla madre superiora.
Tra gli articoli, contrariamente a quella legenda che ha poi avvolto l’orfanotrofio ormai abbandonato e in totale decadenza, spiccano il divieto di atti violenti anche solo verbali (art.10) e il doversi attenere ai “mezzi disciplinari conformi alla sana pedagogia” (art.9)
La preparazione professionale, in vista di un successivo inserimento nel mondo del lavoro, era incentrata sulle attività “in armonia con l’organizzazione industriale iglesiente” che necessitava di meccanici, elettricisti, falegnami, sarti ecc. Al lavoro teorico seguiva quello pratico che poteva avvenire all’interno della struttura stessa (dove si producevano prodotti per la vendita in città) o in bottega. In ogni caso, 2/3 dello stipendio dei ragazzi veniva trattenuto dall’Orfanotrofio per il mantenimento dell’orfano stesso in tutto quello che gli fosse necessario ma 1/3 veniva invece conservato ogni mese nel suo libretto postale, il quale gli sarebbe stato consegnato ad avvenuto licenziamento dall’istituto.
Questo significa che questi ragazzi venivano raccolti dalla strada, salvati da malattie, criminalità, povertà, protetti, seguiti, istruiti e rilasciati al mondo con una preparazione professionale e un piccolo patrimonio conservato nel tempo, per la propria sussistenza. Il che, se pensiamo che tutto questo è avvenuto un secolo fa e se guardiamo allo stato del sistema educativo italiano oggi, ha dell’incredibile e costituisce un caso talmente avanguardistico che sarebbe “avanti” persino ai giorni nostri.
Spostando l’analisi da un punto di vista più prettamente pedagogico notiamo ancora qualcosa di ben distante dagli atti di vessazione delle suore nei confronti degli orfani, idea che riempie l’immaginario collettivo iglesiente da decenni: “i mezzi e i metodi d’educazione saranno quelli adottati negli istituti salesiani dal grande educatore Don Bosco”. Per questo fu stipulata una convenzione con la Piccola casa della divina provvidenza delle suore Vincenziane di Cagliari.
I metodi “salesiani” si rifanno agli insegnamenti di San Francesco di Sales che fu anche direttore spirituale di San Vincenzo Paoli, santo protettore dell’ordine delle suore in questione. Anche San Giovanni Bosco, che da sacerdote spese la sua vita per i giovani disagiati di Torino, si era ispirato a Sales.
Quindi il filo conduttore della prassi pedagogica dell’istituto è molto chiaro e definito. Possiamo così sintetizzarlo: abbandono dei metodi repressivi, sostituiti da quelli preventivi, “l’educatore vigila con amore per impedire ai giovani di commettere mancanze, mettendoli nelle condizioni ottimali per raggiungere uno sviluppo armonico”. L’anima della pedagogia salesiana è la carità che porta l’educatore ad agire con amore, cordialità e affetto per far capire al ragazzo di essere amato. Solo chi sa di essere amato può amare.
A San Vincenzo De Paoli si deve invece una riforma teorica dell’assistenza sociale con la sostituzione del paradigma dell’elemosina (indiscriminata, saltuaria e spesso socialmente dannosa) con quello del “soccorso ordinato” incentrato sul lavoro come dovere e possibilità di realizzazione e sull’attenzione ai problemi spirituali e non solo materiali delle persone.
Dai documenti conservati all’Archivio Storico di Iglesias scorgiamo successivi riferimenti alle teorie pedagogiche di Montessori, Agazzi e Froebel, per cui, a parte qualche caso isolato che possiamo anche ipotizzare e di cui non abbiamo alcuna documentazione, viene veramente difficile pensare che la situazione all’Orfanotrofio Infanzia e Patria di Iglesias fosse degna di un film horror, come un po’ tutti pensano in città. Anzi, stando alle documentazioni e alle testimonianze dirette di ex ricoverati, possiamo senz’altro affermare che fosse un esempio straordinario di assistenza sociale e pedagogica dal quale le strutture odierne sono ancora molto lontane.
I problemi dell’istituto saranno semmai, col passare dei decenni, di tipo economico. Convertito intorno agli anni 70 in centro di aggregazione giovanile che permetteva l’ingresso anche ai non ricoverati, dovette chiudere per sempre i suoi portoni nel 1984, schiacciato dal peso fiscale ed economico di un territorio ormai in declino.
Silvia Floris
Dove si trova: in un terreno dentro Iglesias, in via Cattaneo, vicino all’ospedale. Google Maps.